DIRITTO DEL LAVORO

LICENZIAMENTO E FIDUCIA

LA REGOLA DI GIUSTIFICAZIONE NECESSARIA DEL LICENZIAMENTO

LA NECESSITA’ DI GIUSTIFICAZIONE PER UN LICENZIAMENTO VALIDO

A seguito dell’entrata in vigore della legge 604/66 e dello Statuto dei lavoratori, la dottrina ha sottoposto a critica l’orientamento interpretativo tradizionale sul contenuto e sulla funzione della giusta causa pervenendo ad un ridimensionamento di tale nozione.

Ciò è avvenuto attraverso ricostruzioni caratterizzate dal punto di partenza comune, costituito dalla unanime convinzione che il contenuto della giusta causa, sia uscito profondamente alterato rispetto all’assetto anteriore alla legge 604/66, in ragione soprattutto dell’influenza esercitata dalla nuova previsione del giustificato motivo.

Queste ricostruzioni conducono tutte alla negazione della concezione fiduciaria della giusta causa, contro la quale si è progressivamente schierata la dottrina. E così, da un lato viene elaborata la teoria della giusta causa come fattispecie esclusivamente con funzione di esonero dal preavviso, oppure, dall’altro, si consolida la teoria della giusta causa contrattuale e della differenza solo quantitativa con il giustificato motivo, sia soggettivo che oggettivo.

A differenza della dottrina, la giurisprudenza, invece, ha prevalentemente continuato a seguire l’interpretazione tradizionale basata, Sulla lesione del vincolo fiduciario anche al fine di allargare il contenuto della giusta causa a comportamenti del lavoratore estranei al contratto.

Tra giusta causa giustificato motivo vi è solo una differenza quantitativa e non qualitativa, e quindi sono due species dello stesso genus, e cioè l’inadempimento notevole del lavoratore.

LA FUNZIONE DELLA GIUSTA CAUSA

La ricorrenza della giusta causa fa soltanto venir meno l’obbligo del preavviso. Solo eventi riconducibili all’inadempimento degli obblighi contrattuali o, comunque, al giustificato motivo, costituiscono fattispecie di valido eccesso, mentre la previsione della giusta causa è neutra rispetto all’individuazione della fattispecie che rende valido il recesso, i cui parametri di legittimità sono fissati nell’art 3 della legge 604/66, che stabilisce che “il licenziamento per giustificato motivo con preavviso è determinato da un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro ovvero da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa”.

Il giudice, prima dovrà accertare se sussistono i presupposti stabiliti dall’articolo 3 della legge 604/66 per la validità dell’atto di licenziamento. In caso di esito negativo, l’indagine finirà a questo punto. Se invece l’accertamento sarà positivo, diventerà rilevante stabilire il tempo di produzione dell’effetto estintivo dell’atto valido; e solo a questo punto, ovviamente con un recesso in tronco, verrà in rilievo la giusta causa, come norma che disciplina esclusivamente la mancanza del preavviso.

La giusta causa integra soltanto un presupposto di fatto che, se invocato dal datore di lavoro e non impugnato dal lavoratore (o, se impugnato, accertato sussistente), lo esonera dal corrispondere l’indennità sostitutiva del preavviso. Non esistono due diversi negozi denominato “licenziamento”, uno semplice e l’altro per giusta causa: l’atto di recesso è unico ed ha struttura non diversa nei due casi, ancorché nella giusta causa sia invocato un presupposto di fatto dal quale seguono effetti economici.

L’indagine sulla sussistenza della giusta causa è successiva e subordinata dal punto di vista logico a quella della legittimità del recesso; solo una volta stabilita la sussistenza in concreto del giustificato motivo, il giudice si deve allora chiedere se vi siano i profili di maggiore gravità che impediscano il differimento degli effetti del licenziamento.

La mancanza di preavviso non è idonea ad incidere sulla validità dell’atto, ma semplicemente sul termine iniziale di efficacia dello stesso. Ciò vuol dire che non è necessario un altro potere (di recesso straordinario) per giustificare la mancanza di preavviso. Conseguenza di ciò è che il recesso rimane ordinario, e il difetto di giusta causa non potrà fare altro che attribuire al lavoratore un diritto al risarcimento.

La giusta causa, quindi, nel rapporto di lavoro a tempo indeterminato, non è fattispecie costitutiva del recesso straordinario, ma attiene semplicemente al preavviso e non al recesso.

Quindi, la giusta causa costituisce una delle due giustificazioni del licenziamento previste dalla legge (l’altra è contenuta nell’art 3 l. 604/66), che produce l’effetto di esonerare il datore di lavoro dall’obbligo del preavviso.

Infatti, l’art 1 della l. 604/66 sancisce che sono due le ragioni che giustificano il licenziamento (“…il licenziamento non può avvenire che per giusta causa ai sensi dell’articolo 2119 c.c. o per giustificato motivo”). Ciò significa che dalla giusta causa scaturiscono due effetti: la legittimazione del licenziamento ex art 1 l. 604/66, nonché l’esonero dall’obbligo del preavviso ex art 2119 c.c.

L’art 3 della l. 604/66 stabilisce che “il licenziamento per giustificato motivo con preavviso è determinato da un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro ovvero da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa”. Sotto l’apparente unicità di tale fattispecie si possono enucleare due ipotesi diverse qualitativamente da quelle del giustificato motivo, che permettono di attribuire anche al recesso in tronco una duplicità di funzione: l’ipotesi dell’inadempimento (c.d. giusta causa soggettiva), ovvero l’ipotesi delle ragioni aziendali (c.d. giusta causa soggettiva).

Per quanto riguarda l’inadempimento vi è ovviamente una gradazione o “scala” di rilevanza dello stesso: dall’inadempimento di non scarsa importanza non è sufficiente a legittimare il licenziamento perché meno che notevole, si passa all’inadempimento “notevole”, che legittima il licenziamento con preavviso, per arrivare infine all’inadempimento “più che notevole” che non consente la prosecuzione anche provvisoria del rapporto, e che, dunque, legittima il recesso senza preavviso.

 

LA DISTINZIONE TRA GIUSTA CAUSA E GIUSTIFICATO MOTIVO SOGGETTIVO

Tra giusta causa e giustificato motivo soggettivo esiste solo una differenza quantitativa, nel senso che la giusta causa rappresenta un inadempimento “più che notevole” agli obblighi contrattuali, cioè di particolare gravità e rilevanza, tale da non consentire la prosecuzione del rapporto neppure per il periodo di preavviso.

Si avrà quindi un “inadempimento-giusta causa” ed un “inadempimento-giustificato motivo” che si differenziano solo quantitativamente per la minore o maggiore gravità.

Infatti, costituiscono fattispecie di valido recesso solo eventi riconducibili all’inadempimento degli obblighi contrattuali del lavoratore.

Quindi, la giusta causa è un giustificato motivo particolarmente caratterizzato dal fatto che, per la sua identità e gravità, rende perseguibile anche provvisoriamente rapporto: è un plus rispetto alla situazione base determinante e giustificante.

OBBLIGHI ACCESSORI E DI PROTEZIONE

GLI OBBLIGHI DEL LAVORATORE: OBBLIGHI PRIMARI E SECONDARI DI PRESTAZIONE E GLI OBBLIGHI ACCESSORI

La generalità della dottrina, nel superare la concezione fiduciaria del licenziamento E nel ricondurre la giusta causa all’inadempimento, ha precisato che l’inadempimento rilevante a tal fine non può essere solo quello dell’obbligazione fondamentale di svolgere la prestazione, Ma si estende anche a tutte le violazioni degli altri obblighi, integrativi, accessori e di protezione, Senza alcuna esclusione poiché la rilevanza ai fini del licenziamento è data soltanto dalla “notevolezza” dell’inadempimento e non da una presunta “notevolezza” dell’obbligo.

Bisogna quindi determinare quando un comportamento del lavoratore si possa definire “estraneo al rapporto” o “extralavorativo”. In un rapporto contrattuale come è quello di lavoro subordinato, la linea di confine è data dall’ampiezza degli obblighi derivanti da tale contratto, per cui, ai fini della responsabilità contrattuale del lavoratore, ciò che rileva è la configurabilità o meno di un inadempimento di tali obblighi. Sicché saranno definibili estranei al rapporto, e quindi attinenti alla vita privata, tutte quelle situazione non qualificabili tecnicamente come inadempimento.

Però, il rapporto di lavoro si presenta come una relazione intersoggettiva di contenuto complesso in cui, intorno al nucleo centrale costituito dalle due obbligazioni fondamentali di prestare lavoro e di corrispondere la retribuzione, si dispone una cornice di obblighi ulteriori che ruotano attorno all’impegno fondamentale delle parti.

Il lavoratore non si obbliga semplicemente a prestare la propria attività di lavoro in determinate mansioni, ma si obbliga a svolgere tali mansioni in vista dello scopo dell’organizzazione creata dal datore di lavoro: tale scopo fornisce la misura della quantità e della qualità della prestazione dovuta dal lavoratore, cioè della diligenza cui è tenuto.

Bisogna così distinguere gli obblighi derivanti dal contratto in due grandi categorie: gli obblighi di prestazione e gli obblighi di correttezza.

Gli obblighi di prestazione, che sono destinati a realizzare l’interesse specifico di ciascuna parte in vista del quale stato stipulato il contratto e, quindi, nel caso del datore di lavoro, l’interesse alla prestazione di lavoro, comprendono, oltre all’obbligo di svolgere la prestazione fondamentale, anche una serie di obblighi del prestatore c.d. “obblighi integrativi strumentali”; questi non hanno uno scopo autonomo ma tendono ad assicurare il conseguimento dell’utilità obiettiva che il datore si attende dalla prestazione del lavoratore, e quindi rappresentano altrettante specificazioni di questa: ad es, l’obbligo di cura degli strumenti di lavoro forniti dal dottore di lavoro, più ampio del semplice dovere negativo di non danneggiarli.

Gli obblighi di correttezza si possono ulteriormente distinguere in due sottospecie: 

-gli obblighi preparatori all’adempimento della prestazione principale e gli obblighi di conservazione della possibilità della prestazione, che pur avendo natura strumentale, hanno però un contenuto autonomo in quanto non operano nel contesto specifico dell’attività di prestazione, e inoltre possono concernere non solo del debitore, ma anche il creditore; 

-gli obblighi di protezione o di sicurezza, che non sono ordinati alla realizzazione dell’interesse di prestazione che ha sollecitato ciascuna parte a stipulare il contratto, e perciò sono autonomi sia dal punto di vista del loro contenuto che dal punto di vista del fine; essi tutelano ciascuna parte contro i rischi specifici cui essa si espone mettendosi in contatto con l’altra: rischi consistenti nella possibilità che, in occasione dell’esecuzione del contratto, una parte tenga comportamenti capaci di cagionare danno alla persona o ai beni dell’altra parte.

Per quanto attiene agli obblighi di prestazione, l’art 2104 2 comma c.c. configura un autonomo, anche se strumentale, dovere di obbedienza, distinto da quello di lavorare, nel quale si sostanzia il versante passivo della subordinazione. L’obbedienza è qualcosa di aggiuntivo rispetto all’obbligo di lavorare: infatti, la violazione del dovere di obbedienza non esclude che la prestazione, in sé considerata, possa risultare perfettamente adempiuta.

La categoria generale degli obblighi accessori può essere suddivisa in obblighi strumentali, obblighi preparatori ed obblighi di protezione.

La loro caratteristica comune è quella di allargare il vincolo contrattuale oltre la mera esecuzione in modo subordinato e diligente della prestazione lavorativa.

Gli obblighi accessori strumentali sono tutti collegabili con la prestazione lavorativa e con il suo inserimento nell’organizzazione, in ciò differenziandosi con gli obblighi di protezione.

L’osservanza di tali obblighi non determina l’adempimento dell’obbligo di lavorare, né, all’opposto, la loro violazione compromette la possibilità di adempiere.

Tuttavia, peculiarità di tali obblighi è che essi, a differenza di quelli di protezione, presentano un nesso di strumentalità con l’attività lavorativa; però tale nesso intercorre non con l’esatto adempimento dell’esecuzione della prestazione lavorativa stessa, ma con l’aspetto concernente il suo inserimento nell’organizzazione globale predisposta dal datore di lavoro: in sostanza la sua “organizzabilità”. Infatti, nel rapporto di lavoro, l’inadempimento riguarda non solo la lezione del creditore all’interesse della prestazione, ma anche la sua attitudine a ledere l’ordinato e proficuo assetto produttivo.

Quindi, in tale categoria rientrano non solo gli obblighi preparatori ma anche quelli riguardanti comportamenti del lavoratore strumentali alla possibilità di controllo dell’esatto adempimento della prestazione o di altri aspetti rilevanti del rapporto, nonché alcuni obblighi di avviso e di informazione.

 

GLI OBBLIGHI PREPARATORI

Gli obblighi preparatori o di preparazione all’adempimento, che, specialmente in determinati rapporti richiedenti una perfetta efficienza fisica (es. sportivo professionista), possono vincolare il dipendente determinate condotte extra lavorative necessarie ad un successivo utile svolgimento della prestazione, sono preordinati al mantenimento della possibilità di adempimento della prestazione. Infatti, la diligenza del debitore si estende anche alla fase precedente all’adempimento, avendo ad oggetto la conservazione delle condizioni necessarie all’adempimento stesso.

Questi obblighi sono qualificati come strumentali rispetto al dovere di prestazione.

Nel rapporto di lavoro gli obblighi preparatori trovano la loro fonte nelle disposizioni degli artt. 2094 e 2104 c.c., ma anche nelle clausole generali di buona fede e correttezza.

Al lavoratore è imposto un generale obbligo di coerenza: egli non può tenere un comportamento che, pur non violando l’obbligo di lavorare in sé e per sé, è tuttavia in grado di porne a repentaglio la possibilità. La violazione di tali obblighi comporta, al pari dell’esecuzione della prestazione, la responsabilità da inadempimento. 

La buona fede, obbligando le parti a conformare il loro contengo alla superiore esigenza di solidarietà, restringe o allarga le posizioni di debito e di credito. La correttezza consiste in una condotta riguardosa nei confronti dell’altra parte e si manifesta in un complesso di situazioni passive, volta ad evitare una serie di pregiudizi alla controparte.

La funzione di tali obblighi è meramente servile rispetto a quello principale e li priva di qualsiasi autonomia; essi, infatti, perseguono lo stesso interesse dell’obbligo principale. Conseguenza di ciò è che non possono essere fatti valere in giudizio se non si è verificata l’impossibilità della prestazione. Infatti, l’obbligo preparatorio è un obbligo integrativo e strumentale: è integrativo in quanto nasce dall’azione della buona fede sul contratto; è strumentale in quanto non ha uno scopo autonomo rispetto all’obbligo principale.

Perché si possa parlare di violazione dell’obbligo preparatorio è necessario individuare, come per l’obbligo principale, un criterio di diligenza, che permetta di stabilire quando il debitore non ha fatto abbastanza per evitare il verificarsi del fortuito.

Mancando un criterio tecnico che permetta di valutare esternamente il comportamento del lavoratore, non gli si potrà chiedere null’altro che una determinata quantità di sforzo: se tale sforzo sussiste, non avrà rilievo il verificarsi del fortuito: il debitore non ne risponderà in quanto l’impossibilità non gli sarà imputabile, e l’obbligazione sarà estinta.

Per quanto riguarda il contenuto degli obblighi preparatori, la prestazione del lavoratore è caratterizzata dalla frammentazione in periodi aventi una cadenza regolare; esiste quindi un “tempo del contratto”, che è continuato, ed un “tempo dell’adempimento”, che non lo è.

L’obbligo preparatorio esercita i suoi effetti negli intervalli in cui il lavoratore non presta la propria attività, impedendogli tutte le misure atte a mantenere la possibilità della prestazione.

Infatti, il lavoratore “coerente” è tenuto ad evitare tutto quanto, danneggiando la sua persona, può causare l’inadempimento o l’adempimento inesatto. 

Tuttavia, applicando rigorosamente tale principio, l’intera vita privata del lavoratore sarebbe posta al servizio della controparte. L’ordinamento, infatti, tutela l’interesse al riposo che ha due funzioni: la ripresa delle forze fisiche e la possibilità di curare altri interessi personali.

 

GLI OBBLIGHI DI PROTEZIONE E IL CONTRATTO DI LAVORO

Nel contratto di lavoro gli obblighi di protezione sono reciproci, cioè sono a carico sia del datore di lavoro che del lavoratore; entrambe le parti sono coinvolte: il lavoratore coinvolge la sua persona nel rapporto, il datore di lavoro il complesso tecnico-produttivo, proiezione del suo patrimonio.

Gli obblighi a carico del datore di lavoro sono quasi tutti tipizzati dalla legge, in particolare dall’art 2087 c.c., che appresta una tutela particolarmente intensa rispetto a quella prevista per la generalità dei debitori, tanto da far addirittura sostenere che tale dovere di sicurezza nei confronti del lavoratore sia assorbito nella prestazione principale, paragonandolo alle fattispecie in cui la persona del creditore costituisce il sostrato della prestazione.

Gli unici obblighi di protezione a carico del lavoratore ed a favore del datore di lavoro tipizzati dalla legge sono quelli previsti nell’art 2105 c.c., sotto la rubrica “Obbligo di fedeltà”; gli altri sono desumibili direttamente dalla funzione integrativa della buona fede e correttezza.

Per quanto riguardo il contenuto e la tipologia degli obblighi di protezione non rilevano quelli già tipizzati dal legislatore nell’art 2105 c.c., ma quelli desumibili dalla funzione integrativa delle clausole generali. Infatti, l’interesse di protezione del datore di lavoro è più ampio di quello preso in considerazione da tale norma che, quindi, può essere intesa solo come una specificazione del predetto, più generale, interesse, vale dire come un’applicazione dei più generale doveri di correttezza.

L’art 2105 c.c. è peraltro importante perché gli obblighi ivi contenuti presentano tutte le caratteristiche che consentono di individuare questa categoria: la riferibilità del danno, o del pericolo di danno, al contratto; la non riferibilità all’adempimento del dovere di prestazione in sé considerato; la reciprocità; l’autonoma azionabilità; l’accentuazione della funzione integrativa della buona fede dovuta all’immissione del lavoratore nella sfera giuridica dell’imprenditore, che  determina il sorgere di obblighi anche atipici di protezione.

LA TIPOLOGIA DEGLI OBBLIGHI DI PROTEZIONE

Nel rapporto di lavoro gli obblighi di protezione sono principalmente quelli diretti alla conservazione della sfera giuridica in cui il lavoratore si trova inserito.

I più importanti obblighi di protezione sono quelli specificamente di “conservazione”, nel cui ambito sono individuabili vari sottotipi.

 

  1. Interesse alla conservazione dell’integrità materiale del patrimonio del datore, inteso nel senso statico e complessivo

 

Qui la protezione è nei confronti del c.d. patrimonio in atto, mentre la tutela dell’azienda sul mercato riguarda il patrimonio “in potenza”. Si tratta dell’interesse alla protezione dei mezzi di produzione, Impianti, degli strumenti di lavoro, ecc, coinvolti nella gestione dinamica dell’impresa: patrimonio inteso in senso lato.

Pertanto costituiscono inadempimento di tale obbligo di protezione, ad es, i furti o l’appropriazione indebita, da parte del lavoratore di beni, merci, attrezzature e l’utilizzazione indebita di beni aziendali (telefoni, autovetture..)

L’inadempimento di tali obblighi di protezione può cumularsi, a seconda delle modalità con cui è attuato, anche con l’inadempimento di altri obblighi, principali o accessori, gravanti sul lavoratore.

 

  1. Interesse al regolare svolgimento dell’attività produttiva e a non subire turbamenti all’organizzazione tecnico-produttiva e al suo normale funzionamento

 

L’interesse di protezione dell’organizzazione non è limitato solo a tutelarla da eventi causati dal lavoratore che addirittura non gli consentono di adempiere la prestazione. Infatti, è configurabile anche un generale obbligo di non turbare l’organizzazione tecnico-produttiva e quindi il suo regolare funzionamento.

 

  1. Interesse dell’impresa a non subire pregiudizi sul mercato all’immagine, all’avviamento, ecc.

 

Vi è un’ulteriore e più generale interesse di protezione del datore di lavoro, individuabile nel non subire danni alla sua complessiva sfera giuridica che riguarda vari aspetti, quali, ad es, l’avviamento dell’azienda, il suo prestigio, il buon nome dei prodotti e dei servizi, e tutto ciò che attiene all’interesse dell’impresa nella sua proiezione sul mercato.

In sintesi si tratta dell’interesse finale relativo alle probabilità di guadagno dell’impresa.

Si tratta, dunque, della tutela della posizione dell’impresa sul mercato e quindi del suo patrimonio “in potenza”. Non è un generico dovere di fedeltà del lavoratore, ma è l’osservanza dei doveri negativi imposti dalla direttiva di buona fede e correttezza che si sostanziano in obblighi di protezione atipici aventi come contenuto quello di non gettare discredito sull’impresa, ovvero quello di non arrecare danni alla sua immagine ed al suo avviamento.

L’obbligo di non danneggiare l’impresa sul mercato, gravante sul lavoratore che pure sia perfettamente adempiente alla sua prestazione lavorativa, consente di inquadrare in modo più corretto una serie di fattispecie in relazione alle quali la giurisprudenza fa uso del solito improprio paradigma della fiducia.

È sufficiente accertare che il danno non si sarebbe potuto verificare senza il contratto, potendo costituire quest’ultimo anche semplice occasione di tale danno: sarà sufficiente, quindi, il semplice rapporto di occasionalità con il contratto a determinare la situazione di aggravamento del rischio.

Dunque, rientreranno tra le violazioni di questo obbligo di protezione sicuramente tutte le condotte del lavoratore tenute in azienda o nell’ambiente di lavoro che gettano discredito sull’azienda stessa danneggiandone l’immagine sul mercato, anche se non collegate direttamente con l’esecuzione della prestazione lavorativa.

Non si può escludere questo pericolo anche fuori dall’ambiente e dall’orario di lavoro. Sorge così il vincolo, per il lavoratore, di evitare qualsiasi rischio di danno all’azienda anche al di fuori di ambiente e di orario di lavoro. Però tale vincolo, andando ad incidere sulla sfera privata del lavoratore, deve essere rigorosamente circoscritto i limiti ben precisi, onde evitare che l’intera vita privata del lavoratore passi al servizio della controparte.

 

  1. Interesse alla tutela della persona del datore di lavoro e dei suoi familiari

 

Si tratta di un tipico obbligo di protezione che non viene meno nel rapporto di lavoro, anche se nella disciplina legale tipica esso è oggetto di specifica tutela sono in relazione al lavoratore, forse perché il legislatore ha presunto, trattandosi del lavoro nell’impresa, che il datore di lavoro normalmente non è coinvolto nel rapporto.

Ma se il datore di lavoro o i suoi familiari sono invece coinvolti nell’attuazione del rapporto, non si vede la ragione per non configurare un obbligo di protezione di questo tipo.

Tipico esempio di inadempimento di tale obbligo è quello del datore dipendente che ingiuria il datore di lavoro.

 

IL LICENZIAMENTO PER RAGIONI INERENTI ALLA PERSONA DEL LAVORATORE

 

GIUSTA CAUSA E GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO

Integrano giusta causa di licenziamento quei comportamenti tenuti dal lavoratore nella sua vita privata, ed estranei all’esecuzione della prestazione, tutte le volte che siano tali da farlo ritenere professionalmente inidoneo alla prosecuzione del rapporto, e cioè quando, ed è qui che irrompe il solito criterio della fiducia, il rapporto richiede, appunto, un ampio margine di fiducia, esteso alla serietà dei comportamenti privati del lavoratore.

È ben ammissibile la configurabilità di una giusta causa “oggettiva” intesa come tutto ciò che non è inadempimento ma che invece attiene alle ragioni aziendali. E tra queste ragioni si possono far rientrare anche gli effetti obiettivamente negativi sull’azienda di evenienze attinenti alla persona del lavoratore che non costituiscono inadempimento.

A seguito dell’esplicitazione a livello di previsione normativa nell’art 3 l. 604/66 di tali ragioni aziendali giustificatrici del licenziamento (il c.d. giustificato motivo oggettivo), diviene quest’ultima norma di riferimento alla cui stregua valutare la rilevanza a tali fini delle condotte del lavoratore non iscrivibili all’inadempimento; inoltre, come per il giustificato motivo soggettivo, anche qui la differenza con la giusta causa si pone esclusivamente su un piano quantitativo, considerando in tal caso la giusta causa come un giustificato motivo oggettivo “in tronco” per ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa, così gravi ed impellenti da non consentire la prosecuzione anche temporanea del rapporto.

Bisogna quindi verificare se i comportamenti extrasolutori del lavoratore, o i loro effetti sull’organizzazione sull’attività produttiva, possono integrare requisiti posti al giustificato motivo oggettivo.

 

LA SOPRAVVENUTA INIDONEITA’ DEL LAVORATORE

Il primo aspetto che viene in rilievo del giustificato motivo oggettivo per fatti attinenti alla persona del lavoratore è quello relativo alla sua sopravvenuta inidoneità.

Si tratta non solo dei casi di sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore allo svolgimento delle mansioni dedotte in contratto, oppure di casi di carcerazione preventiva, che rendono impossibile la prestazione lavorativa, ma anche di quelle ipotesi in cui vengono meno determinati requisiti indispensabili per l’esecuzione della prestazione sia da un punto di vista strettamente tecnico, come la scadenza del permesso di soggiorno per il lavoratore extracomunitario, la sospensione del porto d’armi o il ritiro del titolo per la guardia giurata, sia da un punto di vista di incompatibilità ambientale, sia per incapacità di adeguarsi all’innovazione tecnologica.

La rilevanza di questi fatti inerenti alla persona del lavoratore ai fini del giustificato motivo oggettivo è data dalla loro incidenza sull’organizzazione aziendale, da valutare in relazione alla concreta incompatibilità con la prosecuzione del rapporto.

Dunque, la formula legislativa del giustificato motivo oggettivo non esclude la possibilità di assegnare rilevanza alle situazioni attinenti alla persona del lavoratore, ma non si può ritenere che tali circostanze siano sufficienti da sole a giustificare il licenziamento, dovendo quest’ultimo, anche il loro presenza, essere pur sempre reso necessario dall’esigenze organizzative.

Sicché, condotte illecite, criminose e comunque scorrette tenute dal lavoratore nella sua vita privata, che non integrano però alcun inadempimento degli obblighi derivanti dal contratto di lavoro, neppure di quelli accessori, strumentali o di protezione, possono rilevare ai fini del licenziamento se, e solo se, sia configurabile la loro effettiva incidenza sul regolare funzionamento dell’organizzazione o sull’attività produttiva.

 

I FATTI INERENTI ALLA PERSONA DEL LAVORATORE E I PREGIUDIZI ALL’ATTIVITA’ PRODUTTIVA E ALL’ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO

Un altro punto di rilevanza, si fini del giustificato motivo oggettivo, delle condotte private criminose, o comunque riprovevoli, del lavoratore, può essere costituito dalla loro idoneità a pregiudicare la stessa capacità produttiva dell’azienda, intesa anche come suo andamento economico, quando tali condotte incidano negativamente sulla credibilità e/o l’immagine dell’azienda stessa, così pregiudicandola nel mercato e nella sua capacità concorrenziale.

Infatti, ci possono essere condotte private del lavoratore, di solito penalmente rilevanti, che, in determinate condizioni, possono produrre, non solo una lesione dell’interesse di protezione del datore di lavoro, e quindi, integrando un inadempimento degli obblighi contrattuali, costituire giustificato motivo soggettivo, ma, nel contempo, possono essere suscettibili di rilevare anche come una ragione inerente all’attività produttiva o al regolare funzionamento dell’organizzazione.

Però, non tutte le condotte che costituiscono inadempimento contrattuale e dalle quali derivino anche pregiudizi oggettivi per l’attività produttiva e l’organizzazione sono suscettibili di integrare, oltre quello soggettivo, anche il motivo oggettivo, in quanto, affinché ricorra quest’ultimo è indispensabile che l’espulsione dall’organizzazione del lavoratore sia strettamente necessaria e  funzionale a rimuovere la ragione oggettivamente pregiudizievole per l’attività produttiva o l’organizzazione; mentre tale requisito non occorre affatto nel caso di licenziamento per giustificato motivo soggettivo, stante il suo carattere anche sanzionatorio.

 

LA GIUSTA CAUSA PER FATTI DIVERSI DALL’INADEMPIMENTO

Appurato che possono rientrare nel giustificato motivo oggettivo anche i comportamenti del lavoratore tenuti nella sua vita privata senza alcuna necessità di ricorrere alla concezione fiduciaria del recesso, occorre, in tale ipotesi, chiedersi se dal giustificato motivo oggettivo si possa ritornare alla giusta causa; se, cioè, nei casi più gravi, il datore di lavoro possa legittimamente non concedere il preavviso.

Nulla impedisce di ritenere che per giustificato motivo oggettivo e giusta causa non possa intercorrere la stessa correlazione che si ritiene sussistente tra giusta causa e giustificato motivo soggettivo. Infatti, non sembrano esservi ostacoli per affermare una componente “oggettiva” in tal senso della giusta causa, distinta solo quantitativamente del giustificato motivo oggettivo, non essendo rintracciabili indicazioni decisive dirette ad escludere in via di principio la possibilità di configurare ipotesi di giustificato motivo oggettivo idoneo a legittimare un licenziamento senza preavviso. Ciò in quanto l’ampia formulazione dell’articolo 2119 c.c. consente di dare rilevanza ad evenienze ulteriori e differenti rispetto a quelle concernenti l’inadempimento degli obblighi contrattuali ai fini della giustificazione del licenziamento.

In questa prospettiva si può intendere quindi il termine “fiducia” in senso lato, ossia come il venir meno dell’aspettativa di una proficua collaborazione oggettivamente misurabile , comprendente sia i fatti “soggettivi”, rilevanti in termini di inadempimento, sia quelli “oggettivi”, anche se relativi alla persona del lavoratore.

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